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Bambini da indossare

Nel 1986 l’autorevole American Academy of Pediatrics pubblicava i risultati di un esperimento in un modernissimo ospedale di Montreal. Il  campione era formato da  99 mamme e dai loro neonati. Lo scopo era quello di verificare se, come qualcuno credeva, i bambini tenuti in braccio presentavano una riduzione significativa del pianto rispetto a quelli che, invece, venivano lasciati nella culletta. La risposta forse può apparire scontata, ma per la scienza nulla è vero se non è misurabile. Così, dopo aver verificato che effettivamente i neonati portati in braccio piangevano il 45% in meno degli altri, e che anche nelle ore serali, quelle peggiori, quasi non piangevano affatto, allora hanno scritto che sì, effettivamente, non si può negare: tenere in braccio i bambini, o tenerli a contatto con il corpo delle madri, fa bene.
Chissà quale faccia avrebbero fatto di fronte a tali conclusioni tutte quelle donne, nate prima che le case farmaceutiche inventassero il latte artificiale, che per poter lavorare si  infagottavano addosso i loro neonati con fasce improvvisate, o quelle  madri del cosiddetto terzo mondo che, ancora oggi,  si portano addosso i loro bambini anche quando sarebbero in grado di camminare, bambini che, guarda caso, piangono la metà dei nostri, non soffrono di coliche gassose e non si succhiano il dito.

 

Sono passati molti anni dall’articolo americano, esattamente 23 anni, e qualcuno sembra aver imparato la lezione. Adesso questo modo di portare i bambini è diventato una moda ed è stato ribattezzato Baby wearing, un inglesismo che trasforma una pratica vecchia di secoli in uno stile pratico e divertente, un po` etno e un po` hippy. 

Negli anni ‘70, quindi molti anni prima dell’esperimento nel reparto pediatrico di Montreal, in Colombia, paese del terzo mondo, veniva sperimentata con successo la Kangaroo mother care, ovvero la “Cura della madre-canguro”, che esprime con altre parole lo stesso concetto del Baby wearing, con la differenza che si usa in riferimento ai bambini prematuri.
Negli ospedali colombiani le cullette termiche erano insufficienti e il numero di bambini prematuri troppo alto. Così si è pensato: se funziona con i cuccioli di canguro, funzionerà anche con i cuccioli di uomo. E così è stato.
Negli anni successivi molti studi hanno confermato i benèfici effetti del contatto tra mamme e bambino anche sui neonati con un peso inferiore ai 600 grammi. Oggi sappiamo che la Kangaroo mother care permette al neonato di mantenere una  temperatura corporea costante, migliora il ritmo cardiaco e respiratorio riducendo le apnee, favorisce l`allattamento al seno, determinando una riduzione significativa delle infezioni gastrointestinali; quindi, diminuisce fortemente il ricorso ai farmaci e ad ulteriorei cure che esporrebbero comunque il neonato a dei rischi; in ultima analisi, riduce l’eventuale durata e i costi di ospedalizzazione, assicurando complessivamente una maggiore percentuale di sopravvivenza del neonato.

Dal 1979 questa pratica si è estesa a molti paesi del Centro e del Sud-America, ma nella nostra ricca Italia è utilizzata sempre a piccolissime dosi e con molta diffidenza, come se il bambino potesse essere curato e salvato solo dai medici, come se il corpo della madre non potesse essere all’altezza di competere con le modernissime e costosissime attrezzature ospedaliere.
Lo hanno dimostrato gli scienziati, lo dimostra l’evidenza dei risultati. Forse non si tratta di competere, ma solo di collaborare, fare insieme, medico, mamma e bambino, sfruttando le facoltà di ognuno, innate ed acquisite, mettendo al centro di tutto l’unica cosa che rende possibile e migliora la nostra vita: la relazione.

 

Sonia Bozzi per Uppa.it