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Gravidanza e lavoro, il binomio imperfetto

Fiocco rosa o fiocco azzurro? A casa si festeggia comunque, al lavoro un po’ meno. Cosa succede davvero nel mondo del lavoro quando una donna comunica che da li a qualche mese diventerà una mamma? La gravidanza è forse il momento più delicato della vita di una donna e come tale per le lavoratrici (gestanti, puerpere e in allattamento) viene accompagnata da particolari misure per la tutela della sicurezza e della salute sul lavoro. Parliamo del congedo di maternità, il periodo nel quale la lavoratrice dipendente ha l'obbligo di astenersi dal lavoro. L’astensione può essere obbligatoria, facoltativa e anticipata per maternità a rischio o per particolari condizioni ambientali. Si ha diritto al congedo anche in caso di adozione, affidamento o di collocamento del minore in famiglia. Ma come è possibile che una situazione di protezione del rapporto di lavoro divenga un’occasione per la sua stessa cessazione?

C’è da dire che in Italia non tutte le lavoratrici godono degli stessi diritti. Chi ha la fortuna di “vantare” un contratto a tempo indeterminato ha il diritto e il dovere di usufruire dell’astensione obbligatoria a partire da 2 mesi prima della data presunta del parto e fino a 3 mesi dopo dalla data effettiva. Se le condizioni fisiche lo consentono si può optare anche per la flessibilità: scelta di lavorare fino ad un mese prima del parto e di astenersi poi fino a 4 mesi dopo. In questa circostanza la decisione deve essere avallata sempre dalla certificazione di un medico specialista.

Ma il livello di protezione della gravidanza cambia non appena si esce dal perimetro del lavoro subordinato. Le collaboratrici a progetto hanno diritto solo ad una sospensione del rapporto contrattuale senza corrispettivo con proroga della scadenza naturale del contratto di 6 mesi. Purtroppo spesso dietro tali forme contrattuali si cela un vero e proprio rapporto di subordinazione che quindi non ha tutele. Per capirne di più abbiamo rivolto qualche domanda a  Marco, papà e Ispettore del lavoro che con i suoi colleghi si batte quotidianamente per difendere i diritti della donna, del neonato e della famiglia in maternità.

 Una premessa: la tutela “lavoristica” non è accordata alla madre o al padre del nascituro/nato in quanto tale, ma solo da un punto di vista indiretto: se durante la gravidanza qualsiasi rischio fisico che possa correre la futura mamma può avere ripercussioni (fisiche) nei confronti del nascituro, lo stesso non può dirsi successivamente alla nascita stessa. Il tutelato è sempre e solo il feto/bambino

Parliamo di “dimissioni in bianco”: per l'Istat sono 800.000 le donne costrette alle dimissioni tramite questa pratica illegale. Nel 90% dei casi in coincidenza con una gravidanza o col rientro dalla maternità. Ci sono tutele in questi casi?

La pratica di far sottoscrivere una lettera di dimissioni contestualmente a quella di assunzione, purtroppo, è stata diffusissima nelle aziende, con una situazione di parità tra uomini e donne dipendenti: l’assurdità della vicenda sta nel fatto che spesso questa richiesta non viene intesa come vessatoria nei confronti dei lavoratori (anzi, spesso il lavoro procede regolarmente con ottimi rapporti tra dipendente e “titolare”), ma come una normale prassi a tutela del datore di lavoro e denota la povertà culturale di una parte del tessuto imprenditoriale e dei professionisti che si prestano (nei casi in cui questi, ovviamente, ne siano a conoscenza).

Un’ulteriore difficoltà è data dalla disparità informativa tra datore di lavoro e dipendente: non sempre quest’ultimo legge tutte le “carte” che firma al momento dell’assunzione, forse perché preso dalla gioia degli stipendi futuri oppure (che è più verosimile o almeno più frequente) perché non gli è dato modo di leggerle con un “firma qua, qua e qua” perentorio.

La prima tutela (al momento in cui si scoprono queste situazioni) è quella di denunciare il fatto agli uffici competenti del Ministero del Lavoro, ASL, Guardia di Finanza, Nucleo Carabinieri presso la Direzione Territoriale del Lavoro competente per territorio, ovvero di recarsi presso un legale.

Presso le Direzioni Territoriali del Lavoro, presenti in ogni capoluogo di provincia, ad esempio è istituito un “ufficio del turno” ossia la presenza di un ispettore che garantisce la presenza in ufficio tutti i giorni negli orari di apertura al pubblico a cui è possibile chiedere informazioni o sporgere denunce.

La tutela speciale accordata alle lavoratrici madri comportava già la necessità di procedere alla convalida delle dimissioni, dinanzi ad un funzionario della locale Direzione Territoriale del Lavoro, al fine di poter procedere alla formale cessazione del rapporto di lavoro. Proprio la pretesa delle dimissioni in bianco da parte di molti datori di lavoro ha spinto il Legislatore ad intervenire innalzando la tutela fino al compimento dei tre anni di vita del bambino ed estendendola alla generalità dei lavoratori. (http://www.lavoro.gov.it/ConsiglieraNazionale/Documents/Evidenza/2013/20130404Schedasinteticaproceduradiconvalidadelledimissionierisoluzioniconsensuali.pdf)

Ricordiamo che per la lavoratrice dipendente vige il divieto di licenziamento dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di tre anni di età del bambino. Come mai invece tante mamme “restano a casa”?

Anche in questo caso, si denotano tre distinte ipotesi: ci sono lavoratrici che volontariamente si licenziano, poi quelle che vengono licenziate, infine quelle dimesse.

Nel primo caso nulla quaestio: la gestione del lavoro durante la maternità è strettamente personale e non poche volte ci sono datori di lavoro disperati per la perdita di lavoratrici più che efficienti a causa della scelta di “fare la mamma” di queste ultime. Con riguardo alle dimissioni vale quanto detto più sopra: bisogna denunciare le vicende truffaldine.

Il licenziamento delle lavoratrici madri è assolutamente contro legge, come detto poc’anzi, così come lo è quello delle donne in gravidanza, che dovrebbero comunicare immediatamente al proprio datore di lavoro il certificato medico attestante tale situazione. A tale riguardo si nota spesso una cosa straordinaria: i datori di lavoro (che nel meridione sono in misura preponderante uomini) che (mediamente) magari non notano lo stato interessante della propria partner sino a quando questa non lo comunica ufficialmente (magari già al terzo-quarto mese di gravidanza), si rendono conto immediatamente della gravidanza di una propria dipendente, che magari ha solo un semplice ritardo. Sembra una barzelletta ma si tratta di cose realmente accadute!

La data della comunicazione del certificato medico del ginecologo al datore di lavoro gioca un ruolo fondamentale in questi casi: è infatti indimostrabile, o quasi, l’aver comunicato oralmente lo stato di gravidanza.

Parliamo di abuso di diritti. Ricordiamo tutti l’infermiera “da record” che in 9 anni è riuscita a lavorare solo 6 giorni grazie a permessi per maternità e gravidanze inesistenti. All’ispettorato registrate ancora queste realtà?

Anche in questo caso non si può dare una risposta semplice e precisa. Il discrimine tra abuso e reale necessità di astensione dal lavoro, purtroppo, non è di immediata percezione tramite gli ordinari mezzi di cui le pubbliche amministrazioni sono dotate, anche a causa delle ristrettezze economiche attuali.

L’iter amministrativo inizia, in ogni caso, con una certificazione medica: come si fa a contestare la diagnosi di un ginecologo, con tanto di ecografia? Nel momento in cui inizia la gravidanza alcune categorie di lavoratrici, come già detto, hanno diritto di restare a casa per tutelare il nascituro, indipendentemente dal fatto che il bambino nasca effettivamente.

La presenza di una gravidanza a rischio, poi, viene certificata dal medico in base alla situazione in cui versa la gestante, sia da un punto di vista strettamente fisico, attuale e passata, che psicologico: non esiste un metodo a costo zero (tali sono le risorse in dotazione) che possa contestare quello che un medico specialista certifichi.

Dopo il parto i diritti diventano “senza controllo”: l’allattamento, l’assistenza per la malattia del bambino (che deve certificare il pediatra di libera scelta), il congedo per i figli, non sono soggetti ad alcuna autorizzazione.

E così la nostra mamma potrà stare a casa, ad esempio, dall’inizio della gravidanza (per gravidanza a rischio o per rischi lavorativi) e fino a sette mesi dopo il parto (per rischi legati al lavoro), per ulteriori 30 giorni lavorativi (ogni anno fino al compimento del terzo anno di età, per assistenza in caso di malattia del bambino), per circa due ore ogni giorno lavorativo (in caso di sei ore lavorative giornaliere, per allattamento) e per ulteriori dieci mesi fino al compimento dell’ottavo anno di età (seppure con retribuzione ridotta o nulla, che diventano undici complessivi se fruiti sia dalla mamma che dal padre). Poi ci sono le ferie maturate e, ovviamente, non ancora godute.

Quando ci sono reali esigenze è giusto fruire di questi diritti, ma l’abuso dei diritti, specie se con risvolti economici o economicamente valutabili, è una delle cause che ha portato il debito pubblico dell’Italia alle stelle al pari della corruzione.

Nelle grandi aziende le donne sembrano approfittare di più dei loro diritti. Anche con dichiarazioni di gravidanze a rischio non reali. E' vero?

Sostanzialmente si. La dimensione dell’azienda è indirettamente proporzionale alla personalizzazione del rapporto di lavoro: se all’Ikea lavora Tizia piuttosto che Caia, in sostituzione, non c’è alcuna differenza (salvo eccezioni), e nemmeno si conosce (né probabilmente si conoscerà mai personalmente) il datore di lavoro.

In aziende di piccole e medie dimensioni, al contrario, il rapporto è diretto, e spessissimo i rapporti proseguono anche al di fuori dell’ambito lavorativo.

Se nel primo caso la gravidanza viene percepita dalla lavoratrice solo come un diritto di cui magari approfittare, nel secondo vi è anche una componente psicologica da considerare; è capitato di trovare intente al lavoro donne in stato di gravidanza a rischio, ben felici di aiutare il datore di lavoro sotto il profilo economico, visto che per quel periodo non deve pagare né retribuzione né contributi. Magari, prima, il datore di lavoro aveva anche “simulato” una migliore retribuzione della dipendente in modo da consentirle di percepire un’indennità più elevata.

E’ possibile avere un dato percentuale di questi (finti) pancioni?

No, non è possibile ma certamente non parliamo di (finti) pancioni quanto di (finte o esasperate) gravidanze a rischio.

Come si può controllare la veridicità delle domande presentate? Esiste una prova del nove?

Potrebbe effettuarsi un’ulteriore visita medica, ma a che costo? E in che strutture, viste le liste di attesa per le situazioni di necessità? Giuridicamente si tratta di una valutazione complessa, composta da due parametri: uno legato alla situazione di salute passata e presente della mamma e del feto, l’altra della componente psicologica, legata alle sensazioni di malessere che la gestante può sentire. In questo caso un diverso medico può verificare lo stato di salute dalle analisi o da un’ecografia, che hanno valenza puntuale: chi ci assicura che la futura mamma non ingerisca alimenti immediatamente prima delle analisi stesse in grado di alterarne il risultato?

Quante astensioni obbligatorie (vere o presunte) anticipate registrate in percentuale?

Non sono in grado di fornire dati precisi. Posso solo affermare che nell’ambito delle professioni legate alla sanità in generale, questi casi sono praticamente la prassi, sporadici sono invece i casi nella scuola (soprattutto per insegnanti di sostegno), e praticamente nulli nei restanti comparti.

Molte aziende hanno dichiarato fallimento. In questo caso anche una donna lavoratrice incinta può essere licenziata. In questo caso come ci si comporta e tutela per ricevere le indennità di maternità dall'INPS?

Per le lavoratrici disoccupate spetta il congedo qualora inizi entro 60 giorni dall’ultimo giorno di lavoro ovvero se, pur iniziando oltre tale termine, sussiste il diritto all’indennità di disoccupazione, alla mobilità oppure alla cassa integrazione. Per le disoccupate che negli ultimi due anni hanno svolto lavori esclusi dal contributo per la disoccupazione, il diritto all’indennità  di maternità sussiste a condizione che il congedo di maternità sia iniziato entro 180 giorni dall’ultimo giorno di lavoro e che siano stati versati all'Inps 26 contributi settimanali negli ultimi due anni precedenti l'inizio del congedo stesso.

In questi casi l’indennità viene erogata direttamente dall’INPS, a cui va presentata telematicamente la domanda mediante una delle seguenti modalità:

  • WEB – servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN dispositivo attraverso il portale dell’Istituto (www.inps.it - Servizi on line); 
  • Contact Center integrato – n. 803164 gratuito da rete fissa o n. 06164164 da rete mobile a pagamento secondo la tariffa del proprio gestore telefonico; 
  • Patronati, attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi.

La domanda telematica va inoltrata prima dell’inizio del congedo di maternità ed, in ogni caso, non oltre un anno dalla fine del periodo indennizzabile, pena la prescrizione del diritto all’indennità.

Nelle stesse modalità deve essere comunicata la data di nascita del figlio e le relative generalità entro 30 giorni dal parto.

 La domanda telematica prevede la possibilità di allegare documentazione utile per la definizione della domanda (provvedimenti di interdizione anticipata/posticipata, provvedimenti di adozione o affidamento, autorizzazione all’ingresso in Italia del minore straniero in adozione o affidamento preadottivo rilasciato dalla Commissione per le Adozioni Internazionali, attestazione di ingresso in famiglia del minore adottato/affidato e così via).

Il certificato medico di gravidanza ed ogni altra certificazione medico sanitaria richiesta per l’erogazione delle prestazioni economiche di maternità/paternità dev’essere, invece, presentata in originale alla Struttura Inps competente, allo sportello oppure a mezzo raccomandata postale in busta chiusa.

Sulla busta contenente la certificazione medico sanitaria è utile apporre:

  • il numero di protocollo rilasciato dalla procedura di invio online
  • la dicitura "documentazione domanda di maternità/paternità – certificazione medico sanitaria" (ai fini della legge sulla privacy).